LA COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE DI RIETI 
                              Sezione 2 
 
    Riunita con l'intervento dei signori: Gianni Sandro - Presidente,
Cricenti Giuseppe - relatore, Mazzatosta Mario - Giudice,  ha  emesso
la seguente ordinanza sul ricorso n. 13/2015 spedito  il  14  gennaio
2015, avverso avviso di accertamento n. MUP090000425U giochi-lotterie
2009, contro: Agenzia delle dogane e monopoli - Sezione operativa  di
Rieti, proposto dal ricorrente:  Stanleybet  Malta  Limited,  Palazzo
Pietro Stiges, 103  Str.  Stree  La  Valletta  EE,  difeso  da  Gazzo
Massimiliano presso studio legale De Berti Jacchia Franchini, via San
Paolo n. 7 - 20100 Milano. 
    La Commissione, a scioglimento della  riserva;  letti  gli  atti;
osserva. 
    1. La ricorrente gestisce un centro di raccolta delle  scommesse,
per  conto  di  Stanley  International,  che,  per  quanto   riguarda
l'Italia, ha ceduto il ramo di azienda relativo  ai  giochi  ed  alle
scommesse, a Stanleybet Malta Limited. 
    In particolare, la ricorrente ha con la Stanley un  contratto  di
ricevitoria, in base al quale  raccoglie  le  scommesse  dei  singoli
scommettitori e le  trasmette  a  Stanley,  pagando  poi  l'eventuale
vincita. In sostanza, il giocatore prende visione, all'interno  della
ricevitoria, delle proposte di scommessa fatte da Stanley (in  genere
su un monitor telematico), compila una schedina con la scommessa  che
intende accettare e la consegna al ricevitore, il quale la  trasmette
a  Stanley.  Quando  quest'ultimo ha  ricevuto  la   volonta'   dello
scommettitore, quello e' il momento in cui si conclude il contratto. 
    Se il giocatore vince, la  somma  viene  pagata  direttamente  da
Stanley. 
    Cosi' che la ricevitoria non e'  il  soggetto  che  organizza  le
scommesse, in quanto non stabilisce su cosa e per quanto  scommettere
e non decide quale sia la vincita da corrispondere al giocatore. 
    L'organizzatore della scommessa e' il bookmaker (nel nostro  caso
Stanley) mentre la ricevitoria funge da centro  di  trasmissione  dei
dati necessari alla conclusione del gioco. 
    2. L'Agenzia delle entrate pretende il  pagamento  della  imposta
sulle scommesse anche dal ricevitore. 
    Cio' fa sulla base dell'art. 3, decreto legislativo  n.  504/1998
come interpretato  dall'art.  1,  comma  66,  lettera  b),  legge  n.
220/2010. 
    La prima  delle  due  norme  stabilisce  che:  «soggetti  passivi
dell'imposta  unica  sono   coloro   quali   gestiscono,   anche   in
concessione, i concorsi pronostici e le scommesse». Norma oggetto  di
interpretazione autentica da parte dell'art. 1, comma 66, lettera b),
legge  n.  220/2010,  che,  allo  scopo  di  eliminare  ogni   dubbio
sull'equiparazione delle scommesse offerte dagli  allibratori  muniti
concessione italiana rispetto  a  quelli  residenti  in  altro  Stato
membro dell'Unione europea, ed operanti con modali  transfrontaliera,
che ne sono privi (cfr. art. 1,  comma  6,  legge  n.  220/2010),  ha
disposto che «... l'art. 3 del decreto legislativo 23 dicembre  1998,
n. 504, si interpreta nel senso che  soggetto  passivo  d'imposta  e'
chiunque, ancorche' in assenza ... della concessione  rilasciata  dal
Ministero dell'economia e delle finanze  -  Amministrazione  autonoma
dei  monopoli  di  Stato,  gestisce  con   qualunque   mezzo,   anche
telematico, per conto proprio o di terzi, anche  ubicati  all'estero,
concorsi pronostici o scommesse di qualsiasi genere.  Se  l'attivita'
e' esercitata per conto  terzi,  il  soggetto  per  conto  del  quale
l'attivita'  esercitata  e'  obbligato  solidalmente   al   pagamento
dell'imposta e delle relative sanzioni». 
    Sulla base di questa ultima norma, l'Agenzia ritiene che i centri
di raccolta dati siano «gestori» di scommesse per conto terzi,  ossia
per conto dei bookmaker (nel nostro caso per conto di  Stanley),  con
la conseguenza di essere soggetti passivi di imposta. 
    3. La questione se  i  centri  di  raccolta  dati  siano  o  meno
soggetti passivi di imposta e' stata posta al giudice  tributario  in
occasioni diverse. Allo  stato  prevale  la  tesi  affermativa,  che,
ritenendo che i centri di raccolta dati «gestiscono»  per  conto  dei
bookmaker le scommesse, ritiene che essi  ricadano  nella  previsione
dell'art. 1, comma 66, legge n. 220/2010,  e  dunque  siano  soggetti
passivi dell'imposta. Con i centri di  raccolta  e'  conseguentemente
obbligato in via solidale il bookmaker di riferimento. 
    Questa tesi, per come anche documentato in atti, essendo di  gran
lunga piu' diffusa della tesi contraria, costituisce, allo stato,  il
diritto vivente, o comunque  costituisce  l'interpretazione  corrente
del combinato disposto (art. 3, decreto legislativo n. 504 del 1998 e
art. 1, comma 66, legge n. 220/2010)  in  tema  di  soggetti  passivi
dell'imposta di consumo. 
    Questa interpretazione  e'  pero'  sospettata  di  illegittimita'
costituzionale per le ragioni, evidenziate dalla ricorrente,  che  si
andranno ad evidenziare  in  seguito  e  che  questa  Commissione  fa
proprie, condividendole. 
    1. La rilevanza della questione. 
    La ricorrente (centro di raccolta dati) contesta di dovere pagare
l'imposta di consumo, meglio, contesta che le due  norme  suindicate,
si possano riferire alla sua attivita'. E' di tutta  evidenza  dunque
che, per poter decidere il ricorso  (se  la  ricorrente  sia  o  meno
soggetto d'imposta)  deve  farsi  applicazione  di  quelle  norme,  e
precisamente,  della  prima,  quale   formulazione   originaria   del
precetto, della seconda quale interpretazione autentica del medesimo. 
    Se la norme vengono intese nel  senso  che  le  ricevitorie  sono
soggetti passivi  d'imposta,  il  ricorso  dovra'  essere  rigettato,
viceversa  se  le  norme  sono  intese  come  non   riferibili   alle
ricevitorie, il ricorso andra' accolto. 
    Si intuisce, senza bisogno di alcuna altra argomentazione, che la
decisione dipende dalla  interpretazione  che  si  vorra'  dare  alle
suddette disposizioni. E tuttavia non si tratta di scegliere tra  due
interpretazioni diverse, cosi' che la questione non e' solo  di  tipo
interpretativo. Come si e' detto l'opinione corrente ha  gia'  scelto
una interpretazione (e la norma,  come  e'  noto,  e'  l'esito  della
interpretazione). Questa Commissione dunque prende  atto  che  esiste
un'interpretazione corrente, che porta a ritenere le ricevitorie come
obbligate al pagamento dell'imposta, ma  ritiene  altresi'  che  tale
interpretazione corrente produca una norma incostituzionale.  Dunque,
la rilevanza della questione e' nel fatto che la norma,  quale  esito
dell'interpretazione corrente di quelle disposizioni,  e'  nel  senso
della imponibilita' e che la causa non  puo'  essere  decisa  se  non
applicandola. 
    Piu' precisamente. 
    Si puo' obiettare che e' allora sufficiente che il giudice scelga
l'una o l'altra delle suddette interpretazioni per decidere la causa,
senza bisogno che sollevi questione di legittimita' costituzionale. 
    O, piu' precisamente, si puo' obiettare che  questo  giudice  non
puo' sollevare la questione senza avere prima sondato la possibilita'
di  una  interpretazione  della  norma  in  un   senso   conforme   a
Costituzione. 
    Va osservato al riguardo, quanto a questo ultimo aspetto, che qui
la rilevanza della questione e' data dalla possibilita' che la  norma
si riferisca anche  alle  ricevitorie  quali  soggetti  d'imposta.  E
l'unica opzione interpretativa che e' rimessa al giudice e'  solo  di
ritenere applicabile o meno la suddetta disciplina anche ai centri di
raccolta delle scommesse. 
    Se  il  giudice  decide  che  la  norma  non  si   applica   alle
ricevitorie,   non   fa   un'interpretazione   compatibile   con   la
Costituzione, piuttosto esclude semplicemente che la norma,  conforme
o meno che sia alla Costituzione, non si applica affatto al suo caso. 
    La necessita' di sondare se vi sia un'interpretazione compatibile
con la Costituzione sorge solo dopo che il giudice avra'  deciso  che
la norma si applica  anche  alle  ricevitorie.  Solo  a  quel  punto,
ritenuta applicabile la norma, e dunque scelta l'interpretazione  che
conduce a quell'esito, potrebbe essere obbligo del giudice verificare
se vi sia un'interpretazione possibile che renda la norma compatibile
con la Costituzione. 
    A ben vedere pero' il giudice rimettente non e' obbligato ad  una
tale verifica quando l'interpretazione  della  cui  costituzionalita'
egli dubita, costituisce  diritto  vivente,  e',  in  altri  termini,
un'interpretazione seguita  correntemente  nella  giurisprudenza.  E'
regola piu' volte affermata che: «in presenza di un  diritto  vivente
non condiviso dal giudice a quo perche'  ritenuto  costituzionalmente
illegittimo, questi ha la facolta' di optare tra  l'adozione,  sempre
consentita, di una diversa interpretazione, oppure -  adeguandosi  al
diritto vivente - la proposizione della questione  davanti  a  questa
Corte; mentre e' in assenza di un contrario diritto  vivente  che  il
giudice rimettente ha il dovere di seguire l'interpretazione ritenuta
piu' adeguata ai principi costituzionali (cfr. ex  plurimis  sentenze
n. 226 del 1994, n. 296 del 1995 e n. 307 del 1996 e da ultimo n. 113
del 2015). 
    Nel caso presente, le corti di merito  (non  v'e'  ancora  alcuna
pronuncia della Corte di cassazione)  sono  quasi  unanimemente,  con
pochissime eccezioni, orientate verso la tesi per  cui  la  norma  si
applica alle ricevitorie, considerandole soggetti passivi  d'imposta.
E l'orientamento sta ricevendo l'avallo delle  Commissioni  regionali
(CTR Bari n. 769/13/2915; CTR Milano n. 1458/15/2015; CTR  Napoli  n.
4615/17/2015). 
    2. La questione poi non appare manifestamente infondata. 
    E' regola che il requisito della non manifesta  infondatezza  non
comporta che il giudice sia convinto della piena  fondatezza,  ma  e'
sufficiente   che   abbia   oggettive   ragioni   di   dubbio   sulla
costituzionalita' della norma (Corte cost. n. 143 del  1982),  per  i
seguenti 
 
                               MOTIVI 
 
    1.  Violazione  dell'art.  53,  comma  1  della  Costituzione  in
relazione al principio di capacita' contributiva. 
    L'imposta sulle scommesse e', per opinione  pacifica,  un'imposta
indiretta, che  colpisce  il  consumo  di  ricchezza  del  giocatore.
L'imposta  grava  sullo  scommettitore  anche  se  e'  riscossa   dal
concessionario e da  questi  girata  all'erario.  Di  conseguenza  la
capacita' contributiva su  cui  e'  commisurata  l'imposta  unica  e'
quella dello scommettitore privato. 
    Il  consumo  della  scommessa  e'  dunque  indice  indiretto   di
capacita' contributiva. 
    Come e' tipico delle imposte  indirette,  l'onere  relativo  puo'
essere (dovrebbe essere) trasferito sul consumatore  della  ricchezza
tassata, ossia sul giocatore. 
    In sostanza, proprio  in  quanto  il  concessionario  non  e'  il
soggetto gravato dall'imposta, ma solo  colui  che  materialmente  ne
versa il gettito  all'erario,  egli  deve  poter  trasferire  l'onere
relativo sul soggetto  passivo,  ossia  sul  giocatore.  Diversamente
l'imposta, pensata per colpire il «consumo» della scommessa da  parte
dello scommettitore,  finisce  con  il  gravare  sul  concessionario,
tradendo la sua natura di imposta di consumo. Ne segue  che  soltanto
se l'imposta potra'  effettivamente  gravare  sul  consumatore  o  su
soggetto capace di trasferire a quest'ultimo l'onere relativo, potra'
ritenersi rispettato il criterio della capacita' contributiva. 
    Se si intendono gli articoli 3, decreto legislativo n. 504/1998 e
1, comma 66, legge n. 220/2010 nel senso che  la  ricevitoria  e'  un
gestore per conto terzi della scommessa, e  dunque  soggetto  passivo
d'imposta, l'esito  e'  la  violazione  del  principio  di  capacita'
contributiva. 
    In nessun modo  infatti  la  ricevitoria  potra'  traslare  sullo
scommettitore l'onere dell'imposta. 
    Non v'e' alcuna norma infatti che consenta o imponga al centro di
elaborazione dati di rivalersi sullo scommettitore o di effettuare la
ritenuta sulle puntate ricevute o sulle vincite versate. Piuttosto la
disciplina amministrativa prevede il contrario (decreto  ministeriale
n. 111/2006). 
    La ricevitoria non puo' effettuare una tale  traslazione  neanche
in via indiretta, ossia modificando le quote  di  scommessa,  poiche'
non ha alcun potere  di  farlo,  essendo  le  quote,  cosi'  come  le
percentuali di vincita  stabilite  direttamente  dal  bookmaker  (nel
nostro caso Stanley). 
    E del resto, di fatto,  il  contratto  tra  il  bookmaker  ed  il
ricevitore  vieta  a  quest'ultimo  ogni  forma  di  ingerenza  nella
determinazione della scommessa e delle quote relative. 
    Il centro elaborazione dati, ricevuta la  somma  da  parte  dello
scommettitore, deve  trasmetterla  al  bookmaker,  verso  cui  ha  un
obbligo di rendicontazione, cosi' che in alcun  modo  la  ricevitoria
puo' traslare sullo scommettitore (neanche  materialmente)  l'imposta
che,  secondo  l'interpretazione  corrente,  e'  tenuto   a   versare
all'erario. 
    Piu' precisamente. 
    Alla ricevitoria (obbligato «principale») e' preclusa la facolta'
di rivalersi sul bookmaker (obbligato «dipendente»), per  l'esplicito
divieto  dell'art.  64,  comma  3,  decreto  del   Presidente   della
Repubblica n. 600/1973, che - al contrario - attribuisce  il  diritto
di rivalsa  all'obbligato  «dipendente»,  dunque,  al  bookmaker.  In
secondo luogo, quand'anche fosse superabile il disposto del  predetto
art. 64, comma 3 del  decreto  del  Presidente  della  Repubblica  n.
600/1973, la rivalsa/regresso nei confronti del bookmaker traslerebbe
l'onere del tributo su un soggetto (il bookmaker, appunto) che non e'
il titolare della capacita' contributiva destinata dal legislatore  a
venire incisa (lo scommettitore). 
    Ne segue che l'attribuzione al titolare di ricevitoria dell'onere
dell'imposta  unica  viola  il  dettato  costituzionale,  in   quanto
colpisce un soggetto  che  non  possiede  la  capacita'  contributiva
individuata  dal  legislatore  quale  fatto  generatore  del  tributo
(consumo di ricchezza nelle scommesse) e che,  al  contempo,  non  ha
alcuna possibilita' di traslarne  l'onere  su  chi  la  possiede  (lo
scommettitore). 
    2. Violazione del principio di  uguaglianza  di  cui  all'art.  3
della Costituzione. 
    Le disposizioni denunciate pongono il medesimo  carico  d'imposta
sul «gestore per conto proprio» (il bookmaker)  e  sul  «gestore  per
conto  terzi»  (il  titolare  di  ricevitoria),   accomunando   cosi'
situazioni oggettivamente diverse sotto molteplici profili. 
    Innanzitutto, l'attivita'  del  bookmaker  e'  astrattamente,  ma
anche di  fatto,  diversa  da  quella  svolta  per  suo  conto  dalla
ricevitoria.  Mentre  il  bookmaker  sceglie  gli  eventi  su  cui  i
giocatori  sono   invitati   a   effettuare   scommesse   (cosiddetto
«palinsesto» ovvero «programma di accettazione» ai sensi dell'art. 5,
comma 4, decreto ministeriale n.  111/2006),  fissa  le  quote  delle
scommesse (vale  a  dire,  il  loro  prezzo)  e  le  loro  condizioni
contrattuali e, come visto, stipula in nome proprio  i  contratti  di
scommessa assumendone i diritti e gli  obblighi,  la  ricevitoria  si
limita a fornirgli  il  supporto  logistico  esterno,  mettendolo  in
contatto  materiale  con  i  giocatori,  trasmettendo  le  rispettive
volonta' contrattuali ed  i  relativi  flussi  di  provvista,  e,  in
definitiva, eseguendo tutte e soltanto le direttive e  le  istruzioni
ricevute dal bookmaker. Nessun ruolo, al contrario, ha la ricevitoria
con riferimento alle altre fasi economico-giuridiche della scommessa:
non partecipa alla formazione  del  palinsesto  di  gioco,  ne'  alla
quotazione delle scommesse; e' soggetto terzo rispetto  al  contratto
di scommessa stipulato tra il bookmaker ed il  giocatore;  non  vanta
diritti sulla puntata; non risponde delle  vincite;  ed,  infine,  ha
l'obbligo di pagarle, non gia' a titolo e  con  provvista  propri,  e
bensi' in esecuzione del mandato ricevuto da parte  del  bookmaker  e
con la provvista da lui fornita. Il bookmaker e'  il  mandante  della
ricevitoria, dei cui incarichi quest'ultima e' mera esecutrice. 
    Non meno diverse sono le utilita' ritratte dai due soggetti dalla
loro  attivita'.  Mentre,  infatti,  il  ricavo  del   bookmaker   e'
costituito  dal  valore  delle  scommesse  stipulate,  quello   della
ricevitoria  e'  dato  dalla  provvigione  che  il   bookmaker   gli,
riconosce. 
    Dal punto di vista  strettamente  tributario,  vale  la  pena  di
evidenziare l'effettivo rapporto sussistente tra i due  soggetti  nei
confronti del presupposto d'imposta, che, lo si ricorda, C. cost.  n.
350/2007  ha  individuato  nel  contratto  di  scommessa.  Mentre  il
bookmaker e' parte del contratto di  scommessa  ed  e'  titolare  dei
diritti (incameramento delle puntate)  e  degli  obblighi  (pagamento
delle  vincite)  che  ne  conseguono,  la  ricevitoria  si  limita  a
«ricevere le schede di partecipazione e riscuotere le poste da  parte
dei  concorrenti  ...»  per  conto  del  primo  (come  esplicitamente
previsto dall'art. 55, decreto del  Presidente  della  Repubblica  n.
581/1951),  al  contratto  di   scommessa   rimanendo   completamente
estranea. 
    Diverso e' anche il  rapporto  con  la  provvista  versata  dallo
scommettitore. Mentre, infatti, il bookmaker ne' e'  il  proprietario
ed e' munito del potere giuridico di disporne, la ricevitoria  e'  un
mero mandatario all'incasso con precisi obblighi di  rendicontazione,
e con l'obbligo  di  riversare  al  primo  tutto  quanto  ricevuto  e
movimentato, al netto delle sole vincite pagate ai  giocatori  e,  in
via di compensazione,  delle  provvigioni  maturate  a  corrispettivo
della propria attivita'. 
    Infine,  anche   con   specifico   riferimento   alla   capacita'
contributiva destinata a venire incisa (quella dello  scommettitore),
la posizione del bookmaker e' profondamente diversa da  quella  della
ricevitoria. Mentre il primo puo' realizzare la volonta'  legislativa
di incidere la ricchezza dello scommettitore mediante  quote  (ovvero
«prezzi» della scommessa) meno favorevoli e, comunque,  rinvenire  la
provvista  necessaria  all'assolvimento  del  tributo  nelle  puntate
raccolte, cio' non e' sicuramente  possibile  per  il  ricevitore,  a
motivo dell'assenza  di  rapporti  giuridici  e/o  economici  con  lo
scommettitore. 
    La  giurisprudenza  di  merito  (ad  esempio:  CTP   Napoli,   n.
29890/30/2014)  ha  tentato  di  superare   quest'ultima   obiezione,
affermando  che  il  titolare  di  ricevitoria   potrebbe   liberarsi
dell'onere dell'imposta mediante appositi accordi  con  il  bookmaker
che lo autorizzassero a prelevare l'imposta dalla puntata.  La  tesi,
tuttavia, non ha pregio, per due ordini di ragioni. In  primo  luogo,
la necessita'  di  un  simile  accordo,  lungi  dal  giustificare  la
discriminazione  lamentata,  la   conferma,   in   quanto   evidenzia
l'inidoneita' della norma a garantire da sola la ragionevolezza della
discriminazione (senza, cioe',  l'intervento  di  atti  di  autonomia
contrattuale, rimessi alla convenienza e alla  forza  imprenditoriale
dei  privati).  In  secondo  luogo,   alla   traslazione   dell'onere
tributario dal «gestore per  conto  terzi»  (ricevitoria)  sul  terzo
beneficiario della gestione (bookmaker), come  gia'  visto,  osta  il
fatto che la responsabilita' di quest'ultimo ha  natura  «dipendente»
ed e', quindi, accompagnata dal diritto di rivalsa nei confronti  dei
responsabile «principale» (il «gestore per conto terzi») ex art.  64,
comma 3, decreto del Presidente della Repubblica n. 600/1973. 
    Posto, quindi, che  bookmaker  e  titolare  di  ricevitoria  sono
soggetti radicalmente diversi, la loro  equiparazione  dal  punto  di
vista della responsabilita' tributaria non puo'  trovare  ragionevole
giustificazione e si risolve  in  una  discriminazione  contraria  al
principio di uguaglianza. 
    Infine, a sostegno dell'assoggettamento all'imposta del  titolare
di ricevitoria, neppure  potra'  invocarsi  un'esigenza  di  supposta
parita'  di  trattamento  fiscale  delle  scommesse  organizzate   da
soggetti titolari di concessione con quelle organizzate  da  soggetti
privi di tale titolo. Al contrario, e' proprio  l'attribuzione  della
soggettivita' passiva alla  ricevitoria,  per  definizione  priva  di
concessione,  a  violare  tale  principio.   Infatti,   nel   sistema
concessorio, l'unico soggetto passivo e'  l'allibratore  titolare  di
concessione (cfr. art.  16,  decreto  ministeriale  n.  111/2006),  e
giammai la «sua» ricevitoria. 
    3. Violazione del principio di proporzionalita' e  ragionevolezza
della legge di cui all'art. 3 della Costituzione. 
    Corollari del principio di uguaglianza tutelati dal medesimo art.
3  Cost.  sono  i  principi  di  ragionevolezza  delle  leggi  e   di
proporzionalita' (cfr., ad esempio: C. cost. n. 2/1999 in cui  si  e'
giudicato che la disposizione ivi scrutinata era «...  irragionevole,
contrastando con il principio di proporzione che e' alla  base  della
razionalita' che informa il principio di  eguaglianza  ...»).  Questi
principi  si  sostanziano  nel  rapporto  che  deve  sussistere   tra
l'obiettivo della norma ed i mezzi che il legislatore  ha  approntato
per il suo raggiungimento, essendo sufficiente,  per  dubitare  della
sua   costituzionalita',   il   riscontro   della   sua    intrinseca
irragionevolezza (cfr. C. cost. n. 104/2003[8]), senza necessita'  di
rinvenire alcun tertium comparationis (cfr. C. cost. n.  23/2011[9]).
Conseguentemente, la norma sara' intrinsecamente irragionevole e  non
proporzionale se, da un lato e' inidonea  a  realizzare  i  fini  che
dovrebbero giustificarla e, dall'altro, comprime in modo  abnorme  od
eccessivo altri diritti costituzionalmente tutelati. 
    Esemplarmente C. cost. n. 89/1996 ha giudicato che  il  «test  di
ragionevolezza» costituisce «... un apprezzamento di conformita'  tra
la regola introdotta e la "causa" normativa che  la  deve  assistere:
ove la disciplina positiva si discosti dalla funzione che  la  stessa
e' chiamata a svolgere nel sistema e ometta, quindi,  di  operare  il
doveroso  bilanciamento  dei  valori  che   in   concreto   risultano
coinvolti, sara' la  stessa  "ragione"  della  norma  a  venir  meno,
introducendo  una  selezione  di  regime  giuridico  priva  di  causa
giustificativa  e,  dunque,  fondata   su   scelte   arbitrarie   che
ineluttabilmente perturbano il canone dell'eguaglianza. 
    Ogni tessuto normativo deve anzi  presentare,  una  "motivazione"
obiettivata nel sistema, che si manifesta come entita' tipizzante del
tutto avulsa dai  "motivi",  storicamente  contingenti,  che  possono
avere indotto il legislatore a formulare una  specifica  opzione:  se
dall'analisi di  tale  motivazione  scaturira'  la  verifica  di  una
carenza di "causa" o "ragione" della disciplina introdotta, allora  e
soltanto allora potra' dirsi  realizzato  un  vizio  di  legittimita'
costituzionale   della   norma,   proprio   perche'   fondato   sulla
"irragionevole" e per cio' stesso arbitraria scelta di introdurre  un
regime che necessariamente finisce per omologare fra loro  situazioni
diverse  o,  al  contrario,  per  differenziare  il  trattamento   di
situazioni analoghe  ...»  (cfr.  altresi'  ex  multis  C.  cost.  n.
245/2007). 
    I predetti principi  sono  stati  ripetutamente  applicati  dalla
Consulta anche in materia fiscale, ad esempio,  con  le  sentenze  n.
281/2011 e n. 10/2015. 
    Con la prima e' stata dichiarata l'illegittimita'  costituzionale
dell'art. 85, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 29
settembre 1973, n. 602, in materia di riscossione  tributaria,  nella
parte in cui prevedeva che il valore di assegnazione allo  Stato  del
bene pignorato all'esito del terzo incanto negativo fosse  svincolato
da  quello  di  mercato.  Tale  decisione  riposa  sul  giudizio   di
irragionevolezza del legislatore  nel  prevedere  che  il  valore  di
espropriazione del bene era individuato in maniera del  tutto  avulsa
rispetto al suo reale valore; e cio', nonostante che il trasferimento
immobiliare abbia la finalita' di trasformare il bene in  denaro  per
il soddisfacimento dei creditori  e  non  certo  di'  infliggere  una
sanzione atipica al debitore inadempiente. 
    Pertinente e' anche la recentissima C. cost. n.  10/2015  che  ha
dichiarato l'incostituzionalita' della ed. Robin Hood tax  (art.  81,
commi 16, 17 e 18, decreto-legge n. 112/2008), giudicata  irrazionale
per la sua inidoneita' a conseguire il duplice obiettivo che  avrebbe
dovuto  giustificarla;  vale  a  dire,  da  un  lato,  la  tassazione
dell'extra  profitto  derivante  ai  petrolieri   dalle   particolari
conformazioni  del  mercato  e,  dall'altro,  la  salvaguardia  degli
interessi dei consumatori mediante il divieto di traslazione. 
    Con riferimento al test di proporzionalita', la Corte ha chiarito
che esso  si  risolve  nel  necessario  contemperamento  dei  diversi
principi e valori di rango costituzionale coinvolti; contemperamento,
da  considerarsi  diretta  espressione   del   generale   canone   di
ragionevolezza (C. cost. n.  220/1995).  Infatti,  «...  il  test  di
proporzionalita',  utilizzato  ...  spesso  insieme  con  quello   di
ragionevolezza ... richiede  di  valutare  se  la  norma  oggetto  di
scrutinio, con la misura e le modalita'  di  applicazione  stabilite,
sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi  legittimamente
perseguiti, in quanto, tra piu' misure appropriate, prescriva  quella
meno restrittiva dei diritti  a  confronto  e  stabilisca  oneri  non
sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi ...»  (C.
cost. n. 1/2014). 
    Al proposito, si rammenti che l'intervento legislativo  del  2010
trovava il suo esplicito  obiettivo  nella  volonta'  legislativa  di
equiparare  la  tassazione  delle  scommesse  offerte  dai  bookmaker
nazionali muniti di concessione a quella dei bookmaker (per  io  piu'
esteri)  che  ne  erano  privi,  «...  garantendo  altresi'  maggiore
effettivita' al principio di lealta' fiscale nel settore del gioco  e
recuperando base  imponibile  e  gettito  a  fronte  di  fenomeni  di
elusione ed evasione fiscali nel medesimo settore ...» (cfr. art.  1,
comma 64, legge n. 220/2010). Ebbene, le  considerazioni  svolte  nei
paragrafi che precedono dimostrano come  tali  finalita',  seppur  in
astratto idonee a giustificare con il tributo l'incisione del diritto
di proprieta' del contribuente, non  vengano  affatto  realizzate  in
concreto  dall'intervento   normativo   del   2010   e   dall'assetto
dell'imposta unica che ne e' derivato. 
    In primo luogo, l'intervento non  realizza  alcuna  equiparazione
soggettiva tra gli operatori  del  mercato,  non  proponendo  affatto
un'equazione fra  ricevitori  «fuori  concessione»  (quale  l'odierna
ricorrente) e ricevitori «in concessione», ne' dei  bookmaker  «fuori
concessione» (come  quelli  esteri)  ai  bookmaker  «in  concessione»
(cioe', i concessionari nazionali). 
    Quanto  ai  ricevitori,  e'  agevole  osservare  che  quelli  «in
concessione» non vengono mai chiamati ad alcun versamento a titolo di
imposta  unica.  A  riprova  di  cio',  il  decreto  ministeriale  n.
111/2006,   mentre   all'art.   2    ammette    esplicitamente    che
l'allibratore/concessionario   possa   avvalersi    di    ricevitorie
(denominate luoghi di  vendita»),  all'art.  16  riconosce  non  meno
chiaramente   l'allibratore/concessionario   come   unico    debitore
dell'imposta, prevedendo addirittura le modalita'  pratiche  con  cui
essa  deve  venire  assolta  («...  il  concessionario  effettua   il
pagamento delle somme dovute, a titolo di imposta  unica  nonche'  le
vincite ed i rimborsi non riscossi di cui all'art. 20, comma  2,  con
le modalita' stabilite dal decreto del Presidente della Repubblica  8
marzo 2002, n. 66 ...»). 
    Quanto, invece,  alla  posizione  dei  bookmaker,  mentre  quelli
titolari di concessione sono obbligati al pagamento, quelli privi  di
concessione che si  avvalgono  di  ricevitorie  (come,  nel  caso  di
specie, Stanleybet) non sono  assoggettati  al  medesimo  obbligo.  A
questi ultimi, infatti, che secondo il modello  della  «gestione  per
conto terzi» sono meri obbligati «dipendenti», l'art.  64,  comma  3,
decreto del Presidente della Repubblica n.  600/1973  attribuisce  il
diritto di regresso integrale nei confronti della ricevitoria. 
    In  secondo  luogo,   non   e'   realizzato   neppure   l'effetto
dell'equiparazione fiscale delle scommesse «in concessione»  rispetto
a quelle «fuori concessione» e, quindi, del «... recuper[o  di]  base
imponibile e di gettito a fronte di fenomeni di elusione ed  evasione
fiscali ...». Si e' visto, infatti, che il  titolare  di  ricevitoria
cui e' addossato l'onere dell'imposta non ha alcuna  possibilita'  di
traslarlo sugli scommettitori;  e,  pertanto,  se  mai  le  scommesse
«fuori concessione»  fossero  state  davvero  stipulate  in  evasione
d'imposta prima della legge  n.  220/2010,  tale  situazione  non  e'
sicuramente cambiata a tutt'oggi. 
    L'inidoneita' degli strumenti approntati dalla legge n.  220/2010
per   raggiungere   gli   obiettivi   dichiarati   dal    legislatore
(sottoposizione alla medesima contribuzione delle  scommesse  offerte
da  qualunque  allibratore   e,   quindi,   realizzazione   dell'equa
contribuzione di  cui  all'art.  53  Cost.)  e',  dunque,  di  solare
evidenza. 
    Ma, all'irragionevolezza della novellazione introdotta  dall'art.
1, comma 66, lettera b), della legge n. 220/2010 nel  contesto  della
presente causa si perviene, oltre che  sul  piano  intrinseco,  anche
nella diversa prospettiva della retroattivita'. Se e'  vero  che  non
sussiste  un   divieto   costituzionale   delle   leggi   extrapenali
retroattive (art. 25 Cost.), queste soggiacciono  pero'  ad  un  piu'
penetrante scrutinio, a salvaguardia dei «... fondamentali valori  di
civilta' giuridica posti a tutela dei destinatari della norma e dello
stesso ordinamento, tra i quali  vanno  ricompresi  il  rispetto  del
principio generale di ragionevolezza e di eguaglianza,[e]  di  tutela
dell'affidamento legittimamente sorto nei soggetti,  quale  principio
connaturato allo Stato di diritto ...» (C. cost. n. 282/2005; nonche'
C. cost. n. 156/2007).  Il  criterio  della  costituzionalita'  delle
leggi retroattive in materia extra-penale si  riconduce,  ancora  una
volta, alla loro ragionevolezza. In punto, C. cost.  n.  416/1999  ha
giudicato:  «...  Il   legislatore   ha   il   potere   di   regolare
autonomamente, sulla base dell'art. 10  Cost.,  situazioni  pregresse
...  in  quanto  il  divieto  di  retroattivita'  della  legge,   pur
costituendo fondamentale valore di  civilta'  giuridica  e  principio
generale  dell'ordinamento  ...  non  e'  stato  elevato  a  dignita'
costituzionale, eccettuata la previsione dell'art. 25 Cost.  relativa
alla legge penale,  sicche',  fuori  da  tale  ultima  materia,  puo'
emanare norme con efficacia retroattiva, a condizione che [anche]  la
retroattivita' sia giustificata sul piano della ragionevolezza e  non
si ponga in contrasto con altri valori e interessi costituzionalmente
protetti (sentenza n. 229 del 1999; sentenza n. 211 del 1997, n.  390
del 1995), tra i quali e' compreso l'affidamento del cittadino  nella
sicurezza giuridica ...» (Conformi, ex multis, C. cost. n.  419/2000;
C. cost. n. 446/2002). 
    La speciale sensitivita' costituzionale della retroattivita'  che
e' insita nelle leggi interpretative e' questione ben nota ai giudici
delle leggi. Ad esempio, C. cost. n. 409/2005 ha statuito che «... al
di fuori della materia penale ... cio'  che  conta  precipuamente  ai
fini del  sindacato  di  legittimita'  costituzionale  di  una  legge
retroattiva non e' l'esistenza dei presupposti ...  per  l'emanazione
di una legge interpretativa, quanto piuttosto la non irragionevolezza
della sua efficacia retroattiva  e  l'inesistenza  di  violazioni  di
altri principi costituzionali ... questa Corte  ha  ritenuto  che  in
linea generale, l'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica
- essenziale elemento dello Stato di diritto non puo' essere leso  da
disposizioni retroattive, che trasmodino in  regolamento  irrazionale
di situazioni sostanziali fondate su leggi  anteriori  (ex  plurimis,
sent. n. 446/2002) ...». 
    La soluzione  non  muta  neppure  per  le  leggi  formalmente  di
interpretazione autentica, come e' il caso della legge  n.  220/2010.
C. cost. n. 252/2000  ha  giudicato:  «...  siccome  la  disposizione
censurata  e  norma  di  interpretazione  autentica   con   efficacia
retroattiva ... e' soggetta, tra gli altri, al  limite  del  rispetto
del  principio  dell'affidamento  dei   consociati   nella   certezza
dell'ordinamento giuridico ...». Cio' che  conta,  non  e'  tanto  la
natura formale o dichiarata di legge di interpretazione autentica,  e
percio',  tecnicamente  retroattiva,  quanto  la  sua  «...  adeguata
giustificazione sul piano della  ragionevolezza  ...»  (C.  cost.  n.
374/2002). Si veda pure C. cost. n. 274/2006, che  ha  precisato  che
«... nel giudizio  di  legittimita'  costituzionale  delle  norme  di
interpretazione autentica non e'  decisivo  verificare  se  la  norma
abbia  carattere  effettivamente  interpretativo   (e   sia   percio'
retroattiva) ovvero sia  innovativa  con  efficacia  retroattiva,  in
quanto il divieto di retroattivita' della legge non e' stato  elevato
a dignita' costituzionale, salva per la materia penale la  previsione
dell'art. 25 cost.  ...  purche'  la  retroattivita'  trovi  adeguata
giustificazione sul piano della ragionevolezza e  non  contrasti  con
altri valori ed interessi costituzionalmente protetti  ...».  Neppure
rileva, infine, che  la  norma  di  interpretazione  autentica  venga
adottata  in  presenza  di  incertezze   nell'applicazione   di   una
precedente norma o di contrasti giurisprudenziali, oppure  fissi  con
la scelta legislativa una delle possibili varianti interpretative del
testo originario; cio' che conta e' che  l'interpretazione  prescelta
dal legislatore, che cosi' assurge  a  precetto  positivo,  «...  non
contrasti con altri valori e interessi costituzionalmente protetti  e
trovi adeguata giustificazione sul piano  della  ragionevolezza  ...»
(C. cost. n. 160/2013). 
    4.  Impossibilita'  di  una  interpretazione   costituzionalmente
orientata. 
    Dalle motivazioni che precedono, esposte dalla ricorrente e fatte
proprie  da  questa   Commissione,   risulta   peraltro   impossibile
un'interpretazione   costituzionalmente   orientata    delle    norme
denunciate, intese come applicabili anche alle ricevitorie. 
    Se infatti si assume che anche il  centro  di  raccolta  dati  e'
soggetto passivo dell'imposta, gli effetti  che  si  sono  denunciati
come  incostituzionali  sono  inevitabili,   e   discendono   proprio
dall'avere  ricompreso  le  ricevitorie  tra  i  soggetti  tenuti  al
pagamento del tributo. 
    In altri  termini,  per  sfuggire  alle  conseguenze  denunciate,
l'unico modo e' di intendere le suddette norme nel senso che  non  si
applicano alle ricevitorie. 
    Ma questa non e' un'interpretazione costituzionalmente  orientata
delle disposizioni denunciate, quanto la loro disapplicazione al caso
concreto. 
    E' pure una strada percorribile, ma, come si e' detto,  rifiutata
dal diritto vivente. 
    Ed e' rispetto alla interpretazione che ne da' il diritto vivente
che si solleva dunque la questione di legittimita' costituzionale.